Ha vinto il Premio Strega 2024, solo una conferma per noi lettori abruzzesi che l’amavamo già da prima per la meraviglia di indovinare i luoghi delle sue ambientazioni, per la familiarità di una lingua parlata, ché a trovarla scritta sembra quasi diversa, ma soprattutto per l’autenticità delle sue storie, sempre così radicate in un contesto primigenio da cui non si può prescindere, a cui si torna inesorabilmente per tutta la vicenda.
Accade così anche ne “L’età fragile”, l’ultima opera di Donatella Di Pietrantonio, in cui la voce narrante di Lucia scruta il ritorno a casa di sua figlia Amanda dopo le inquietudini della vita universitaria Milanese. Nella memoria risuona l’angoscia di trent’anni prima, proprio ora che suo padre vuole cederle la proprietà del terreno che fu teatro della tragica fatalità di quella notte.
“Da allora ogni momento delle nostre vite sarebbe caduto in un prima o in un dopo, non c’era nemmeno bisogno di nominarlo, il fatto.”
Ispirato liberamente ad un fatto di cronaca nera avvenuto sulla Majella negli anni ’90 noto come “Il delitto del Morrone”, che sconvolse l’intera comunità locale e lasciò un segno profondo nell’immaginario collettivo, il libro va oltre la semplice ricostruzione e si immerge nell’indagine psicologica dei protagonisti per riflettere su temi come la fragilità della vita, la violenza, la crescita e la capacità di guarire dalle ferite.
La vicenda si alterna su diversi piani temporali per raccontare le età fragili: dei figli e dei genitori, dei momenti in cui ci offriamo al mondo nudi e vulnerabili per iniziare dal nulla o per ricominciare da capo.
E tra le righe c’è una storia, a cui possiamo offrire un ascolto sottile, che sembra ammantare di grazia il suo prematuro epilogo.